Il secondo portiere sa che, se tutto va come deve andare, non vedrà mai il campo di gioco, non sfiorerà per un solo istante la porta custodita saldamente dal numero 1. Siamo così, noi gente che accoglie per passione di mestiere. Se tutto filasse liscio, non si prevederebbe e non sarebbe concepibile il nostro intervento.
Chi siamo noi, quando accogliamo nelle nostre case un adolescente sguarnito di famiglia, un senza tetto sguarnito di dimora, una donna maltrattata sguarnita di dignità, un giovane tossicomane sguarnito di futuro? Chi siamo noi, quando accogliamo una mamma e un bimbo sguarniti di padre e marito, corpi sieropositivi sguarniti di guarigione, famiglie rom in baracche sguarnite di diritti e doveri di cittadinanza? Chi siamo per loro nel momento in cui ci sbattono gli occhi dritti nei nostri e disfano bagagli e speranze sulle nostre soglie. Tutori, affidatari, educatori, operatori, padri putativi, madri improvvisate? Forse niente di tutto ciò. Molto meno.
Siamo un po’ come il portiere di riserva. Maglia numero 12.
Il secondo portiere sa che, se tutto va come deve andare, non vedrà mai il campo di gioco, non sfiorerà per un solo istante la porta custodita saldamente dal numero 1.
Poi accade l’imponderabile. Un infortunio, un’espulsione dell’estremo difensore e allora dramma. L’allenatore si mette le mani nei capelli, gira il collo con malavoglia verso di lui, e gli fa, rassegnato, cenno di scaldarsi, ed entrare. Il numero 12 trema, si infila i guanti, ci sputa dentro per fare presa, sperando di non prendere sputi dagli spalti.
Siamo così, noi gente che accoglie per passione di mestiere. Se tutto filasse liscio, non si prevederebbe e non sarebbe concepibile il nostro intervento. Salvo eventi traumatici, appunto: le loro famiglie che si rompono, le loro vene che si bucano, i loro tetti che scompaiono, le loro rabbie che esplodono, i loro portieri titolari, mamma e papà, che non tengono più e che i crampi della vita allontanano dal campo.
Allora il destino si volta verso di noi, poco convinto come il mister di una squadra, e ci fa cenno di entrare. Scaldiamo i muscoli dell’accoglienza, allunghiamo i tendini dei progetti educativi, sciogliamo le articolazioni della compassione e ci mettiamo al centro.
Al centro di quella porta che un padre e una madre naturali e in grazia di Dio avrebbero custodito con più diritto e spontaneità. Al centro di quella porta della loro vita, che ci sembra gigantesca e indifendibile. Con il timore che venga violata al primo tiro. Con la speranza di smanacciare le palle viscide dell’esistenza e ritardare un pochino la sconfitta ineluttabile. Con la consapevolezza leggera che il secondo portiere almeno di una cosa è meglio. è meglio di una porta sguarnita che nessun altro si è offerto di difendere.
Capita di restare sulla linea di porta della loro vita per un frammento minuscolo. Oppure per anni. Ma senza mai la presunzione di essere titolari. Sapendo che sulle nostre spalle, a destra del 1, c’è sempre un 2. 12 appunto. Portiere di riserva.
Riserva di accoglienza. Accoglienza senza riserve.
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